Posted on / by GM / in Altro

Conosci la storia (per nulla fantastica) del Pentcho? / 2

La partenza

Il primo a prendere la parola è Alexander Citrom, colui dal quale tutto ha avuto inizio. Spiega il giovane studente le difficoltà legate alla ricerca di finanziamenti per un’impresa percepita da chiunque nella sua gravosità. Trovato il potenziale finanziatore, un ricco negoziante, ebreo anch’egli, Alexander farà attenzione a toccare tutti i tasti possibili utili al raggiungimento del suo scopo. Farà appello all’orgoglio dell’appartenenza, alla fede comune, alla rabbia per un comune destino ingiusto, fino alla finzione adulatrice per il potere e il danaro.

Di contro, l’incredulità dell’interlocutore: “Ma ragioniamo, Alexander: cosa possono farci ancora, che non ci abbiano già fatto? Toglierci i documenti, la nazionalità, i beni, la possibilità di studiare e lavorare come loro, di sposare le loro donne, di vedere i loro giovani innamorarsi delle nostre figlie? Hai paura di questo? Non ce n’è motivo, perché l’hanno già fatto, in Germania e altrove: eppure, siamo sopravvissuti. Non potrebbero farci nient’altro, perché non possono inventarsi nulla di peggio. Ascoltami, è molto più rischioso fuggire lungo il Danubio verso una meta lontana migliaia di chilometri, addirittura oltre il grande mare, con il pericolo – anzi, la certezza – di diventare tutti cibo per i pesci”.

L’incredulità in parola è, per la verità, il segnale di una frattura generazionale storicamente verificabile: l’assenza di dialogo che ha caratterizzato i padri e figli di quel tempo, dove i primi, legati ad un mondo considerato incrollabile, bollavano quali sciocchezze assurde la politica, il sionismo, le nuove organizzazioni che andavano caratterizzando la società. E capita sempre così quando si è convinti che il male che tocca ad altri non possa sfiorarci.

Ne dà ottima dimostrazione Zoltan, l’attivista politico, allorquando porta avanti la contrattazione per l’acquisto del battello. L’armatore, contraente forte, per spuntare il prezzo migliore rispetto a ciò che si rivela essere un autentico rottame sfrutta lo stato di necessità altrui. Dice: “A questo punto, visto che lei pretende chiarezza, l’accontenterò. Le dirò francamente cosa penso, signor Schack, ma l’avverto subito: non le farà piacere. Io credo che, a lei, la Stefano serva. E anche subito, perché domani potrebbe essere già tardi. Questa fretta può voler dire solo una cosa: paura. E la paura fa aumentare il prezzo, non crede? Anzi, le dirò di più. Quando si ha paura, quanto si spende non importa più: perché ogni prezzo è giusto, se la merce che si vuol comprare è la serenità. La tranquillità. O forse la vita, signor Schack?”.

Quando si ha paura, dunque, ogni prezzo è giusto. Il romanzo torna a più riprese su questo tema. La grandezza di Zoltan nel condurre la trattativa sta nel rappresentare la paura come male universale, per cui non esiste certezza in dittatura: “Mio caro, afferma Zoltan, lei deve tenere a mente una cosa: le tempeste, quando arrivano, travolgono tutti. E i primi a morire sono proprio quelli che si sentono al sicuro, come lei. Vede, io so bene cosa sta pensando. Ripete a se stesso che non corre nessun pericolo. Non è ebreo, non è comunista e neppure omosessuale, che Dio ce ne liberi. Quindi, che venga pure l’apocalisse, vero signor Plichkov? Non la riguarda, perché a soffrire sono solo i perdenti, quelli che non sanno vivere. Non quelli come lei. Mi sbaglio? […] Il fatto è, povero il mio Plichkov, che non andrà affatto così. Mi ascolti bene: è solo una questione di tempo. Prima o poi anche lei commetterà uno sbaglio. Una parola di troppo, una mazzetta non pagata. Dicono che i gerarchi nazisti siano molto avidi, sa? E se questo non dovesse accadere, basterà la spiata di un concorrente, o anche solo di qualcuno che invidia tutta la ricchezza che lei ostenta. È così che funziona, quando regna la paura: chiunque può vendere il tuo nome, la tua vita. Lei non lo sa, io sì. Ormai sono abituato. E quando tutto questo succederà, allora anche per lei, per sua moglie e per i suoi due bellissimi bambini – sono loro, in quella foto, giusto? – ci sarà il terrore”.

Subito dopo, altre due figure esemplari: Ivan, il comandante della nave, il quale spiega ottimamente la spietatezza della guerra, e Lili, la dottoressa chiamata a selezionare le persone adatte ad imbarcarsi, sentendosi in ciò molto simile alle guardie naziste preposte ad Auschwitz (saranno trasportati infine tutti coloro che ne avevano fatta richiesta; tra questi vecchi, malati, bambini e una donna in attesa della sua prima figlia).

Se la figura successiva, quella di un negoziante, fa conoscere bene lo stato d’animo di chi, al momento di una partenza rocambolesca, deve decidere in fretta cosa portare con sé, cosa selezionare in una valigia che – di lì a poco – sarà costretto a lasciare sulla banchina del porto, la figura del marinaio semplice ci svela l’aspetto più recondito di tutta la faccenda.

Come, in che modo, dei disperati salgono su una nave cui hanno relegato la loro flebile speranza? Azzuffandosi forse? O magari spintonandosi? Si potrebbe supporre, insultandosi

Assolutamente no.

I 400 ebrei entrano nelle viscere del Pentcho lentamente, una fila di corpi quasi immobile, quasi come in una veglia funebre. Le donne, in particolare, avevano uno sguardo duro. Mettevano quasi spavento. Tutte insieme disegnavano come una grande macchia di grigio e di nero sulla banchina. E basteranno le scarne parole di un passeggero per togliere carattere rivoluzionario al nome comune che battezzava gli imbarcati, indicati genericamente con l’appellativo di “incendiari”. Nulla di politico. Si era scelto quel nome perché gli ebrei del Pentcho non stavano affatto salvando la propria vita, bensì la stavano bruciando: “Salendo su questa zattera travestita da piroscafo, stiamo bruciando noi stessi e le nostre vite. Feste, tradizioni, amori, affari, letture, svaghi, litigi, promesse: tutto finisce oggi, qui, su questo pontile. Non c’è più un passato per noi. Possiamo concederci al più solo una piccola speranza di rinascita. Perché questo accada, però, deve essere chiaro che da questo incendio, se tutto andrà bene, non scamperà nessuna memoria da portare al sicuro”.

Stesso registro l’Autore conserva nel prosieguo del racconto, nelle altre quattro sezioni del libro, illustrando prima il viaggio lungo il Danubio, poi l’avventura in mare aperto, quindi l’approdo a Ferramonti in Calabria e la fine del viaggio. Continua a leggere > clicca qui