Pazzi furiosi (secondo il diritto romano) / II
2. Storia e storiografia
La romanistica, a dire il vero, non è a digiuno su questi temi. Ricorda l’autrice: “Dividendosi per ambiti (il tragico, il medico e il filosofico-giuridico), essa ha affrontato numerosi problemi interpretativi attinenti alla follia, confrontandosi proficuamente con fonti extra-giuridiche, letterarie, mediche e retoriche”.
Ecco, il pregio dello studio di Aglaia McClintock è anche qui: unire alla storia la storiografia, indicare cioè le più importanti monografie che hanno caratterizzato lo studio della follia nell’antica Roma. Altro pregio è che il criterio cronologico utilizzato dall’autrice nell’esposizione delle fonti storiografiche non penalizza affatto il dialogo tra le monografie di un tempo e quelle di oggi. Capita così che l’Audibert, autore del primo lavoro organico sulla follia, nel 1890, dialoghi con Michel Foucault, la cui storia della follia del 1961 è al principio di molti avvenimenti, ivi compresa in Italia la Legge Basaglia sulla chiusura dei manicomi nel 1978. Su questa scia, si collocano i contributi di Oliviero Diliberto, Enrico Nardi, Carlo Lanza, Ferdinando Zuccotti, Giunio Rizzelli e così via, ognuno con le proprie caratterizzazioni.
Che cosa emerge da questi studi? Ciò che si è detto all’inizio: che il discorso sulla follia nel mondo romano è assai complicato, che non è facile orientarsi nella varietà delle fonti disponibili, che il tema è trasversale, interdisciplinare; e, soprattutto, che le parole sono importanti, giacché tutto parte da lì: dalle parole!
Nell’intricato labirinto delle parole, infatti, troviamo di tutto: “furiosus”, “demens”, “insanus”, “mente captus”, se solo ci si ferma in superficie; troviamo lemmi che si perdono nel passato e altri che vengono confermati, magari riproposti sotto diversa veste; troviamo parole usuali ed altre invece rare, se non proprio ricercate; parole tecniche da un lato, parole generali ed astratte dall’altro lato. Ed è proprio a questi incroci, su questi bivi, che si pone la principale sfida dell’autrice, quella terminologica, che però è al tempo stesso una grande lezione di diritto: perché il diritto finisce col preferire certe parole rispetto ad altre? In che modo i giuristi costruiscono il loro linguaggio tecnico? Come si compie una selezione all’interno di un vocabolario vario? Come si delimitano con sicurezza i rispettivi campi, evitando ogni sorta di fraintendimento?
3. Due lezioni di principio
Volendo tornare su un piano prettamente tecnico e specialistico, per quel che riguarda il lessico della follia, si direbbe che la dottrina romanistica si è concentrata essenzialmente sulla distinzione tra “furiosus” e “demens”, tra il soggetto mentalmente deficiente e il soggetto mentalmente alienato, distinzione posta al centro di accesi dibattiti (come tra Solazzi, Lenel, Renier, Albanese, Pigeaud). Ma a ben guardare, ci si trova di fronte ad uno di quegli aspetti per cui il libro, un libro, riesce ad affermare altro. Mi riferisco, nello specifico, a due lezioni di principio.
La prima è che le dispute accademiche non sono mai fini a se stesse. Esse, infatti, a dispetto del nome, producono ripercussioni destinate a fuoriuscire dalle pagine in cui soltanto alcuni le vorrebbero confinate. Discutere ad esempio sull’esistenza possibile dei cosiddetti “lucidi intervalli”, in cui il malato di mente può redigere un testamento, ha significato certamente impegnarsi nella cosiddetta battaglia delle interpolazioni successive ad Ulpiano, ha significato certamente interrogarsi sulla consapevolezza dei progressi compiuti dalla scienza medica dopo Cicerone, ma ha significato altresì dibattere – in ambiti più estesi e coinvolgenti – sulla differenza tra inadeguatezza intellettiva e comportamenti violenti del malato, sul vocabolario latino di tipo figurativo (Paschall) che non trascura etimologie, cronologie e fonti letterarie, ossia sui progressi della filologia, per arrivare a discutere di statuti religiosi, sociali e giuridici ricollegabili alla malattia mentale, fino alla definizione di modelli positivi e negativi di inquadramento della stessa, a seconda di dove ci si collochi a considerarla, al di qua o al di là della ragione e della saggezza.
La seconda lezione di principio, invece, è la seguente: se è vero che ogni classificazione cerca d’imporre un suo ordine, è altrettanto vero che le stratificazioni ordinative determinano alla lunga un forte disordine, una confusione a volte difficile da gestire, in parte controproducente, determinando disorientamento più che certezza.
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