Il Castello di Lagopesole e la sfida dei beni culturali
“[…] Gli interventi dei professori Francesco Panarelli e Fulvio Delle Donne restituiscono del Castello di Lagopesole un’immagine profondamente diversa da quella tradizionale. Chi, infatti, è stato abituato a vedere il Castello di Lagopesole come una delle più importanti costruzioni castellari dell’Italia meridionale, ben inserito nel sistema castellare fridericiano, come luogo importante per la difesa e il controllo del territorio, garante di un’economia che attraversava le strade non sempre agevoli che portavano da Capua a Bari o in Calabria, scopre adesso un’altra realtà, parallela alla precedente; scopre che la fortificazione frequentata da Federico II, dal figlio Manfredi e da Carlo I d’Angiò, era importante anche per la sua “amenità”. Da un lato, dunque, v’era il castello inteso quale luogo politico e di potere, quale luogo di guerra e di governo; dall’altro lato, invece, v’era il castello inteso come domus, luogo di svago e di tempo libero.
La comprensione di tale dato finisce inevitabilmente col coinvolgere la riconsiderazione di tutto il complesso territoriale in cui il Castello si trova. Si vuol dire, in pratica, che ripercorrendo in modo meditato le scelte sovrane di un tempo, indirizzate altresì agli svaghi ameni della storia, si possono approntare valide strategie per l’oggi in termini – perché no? – di turismo culturale.
Parafrasando il professore Panarelli, potrei affermare che la lettura dei beni storico-culturali, cominciando magari proprio dai castelli, è operazione alquanto complessa in termini scientifici sì, ma anche in termini di prospettiva politica. Il valore della sfida odierna, per chi è chiamato all’amministrazione dei luoghi, è appunto nella capacità di tradurre sul piano culturale i risultati conseguiti sul piano delle conoscenze storiche.
Di qui l’importanza di promuovere la rilettura delle fonti documentarie, soprattutto quando i tempi suggeriscono (e a volte impongono) nuovi metodi di analisi; di qui l’importanza di fare della interdisciplinarietà una prospettiva di lavoro e di ricerca; di qui l’importanza della comparazione con gli studiosi stranieri; di qui l’importanza della contestualizzazione (il Castello di Lagopesole visto e considerato nel sistema più ampio in cui era inserito); di qui l’importanza di attraversare il lungo tempo della storia (se un castello riceve una definizione su tutte, e viene etichettato come fridericiano, non vuol dire che esso è esistito solo al tempo di Federico II; al contrario, esistendo prima e continuando ad esistere dopo, esso merita di essere conosciuto in tutte le sue stratificazioni). Torno tuttavia a sottolineare e a ribadire che i risultati scientifici non vanno slegati dai risvolti culturali, in senso lato politici, utili evidentemente per comunità più estese rispetto a quelle ristrette dei soli studiosi.
Detto diversamente. Sarà vero che l’interpretazione dei cambiamenti di un castello può – e in alcuni casi deve – passare attraverso la lettura di elementi tecnici (i lavori di manutenzione ai tetti, gli interventi di miglioramento, la costruzione di un nuovo acquedotto); siffatti elementi, però, non vanno disgiunti dalla lettura dei dati territoriali di riferimento (modificare un castello in funzione di nuove esigenze abitative significa tener presente, ad esempio, le abitudini legate alla caccia, alla freschezza delle fonti sorgive, alla mite temperatura di un sito boscoso). Il passaggio cioè dalla considerazione degli elementi tecnici alla valutazione dei dati territoriali non deve rinunciare ad assumere le forme di un vero e proprio transfert culturale: si ricava in tale maniera una consapevolezza identitaria a tutto tondo delle caratteristiche paesaggistiche di un luogo; e non credo ci si debba attardare più di tanto a spiegare l’importanza dell’operazione culturale in parola.
Ho apprezzato moltissimo poi il ripetuto richiamo all’uso non solo quantitativo, ma anche (e finalmente) qualitativo delle fonti. L’ampia messe di acquisizioni raccolte negli ultimi decenni, sicuramente meritoria, non può approdare a un semplice aumento quantitativo dei dati in nostro possesso, ma a un esito qualitativamente rilevante, nel senso di un’interpretazione che risponda alle esigenze di significato che premono sul cuore dell’uomo (tanto per ripetere alcune parole note). Da una parte, allora, occorre impegnarsi nella meritoria ricostruzione di archivi andati perduti o quasi (si pensi ai Registri angioini); dall’altra parte, non va trascurato l’impegno all’esatta comprensione di impieghi terminologici e discorsivi. Capire a cosa si allude per davvero quando un documento parla di castello, castrum o domus; verificare la qualificazione di un atto, scoprire se dietro uno Statutum si nasconde qualcosa di diverso, magari una inquisicio: ecco, passa pure per queste vie la ricomposizione di quadri storico-territoriali e storico-culturali più ampi.
Il tutto impone un viaggio di andata e ritorno dal particolare al generale e, viceversa, dal generale al particolare. Il professore Fulvio Delle Donne ne dà ottimi esempi quando dice che in questi luoghi deputati alla caccia, in un tempo in cui la caccia era oltretutto legata all’osservazione scientifica della stessa, Federico II non ha potuto non trarre ispirazione per il De arte venandi cum avibus; e lo stesso dovette essere per il figlio Manfredi che ne curò la revisione o l’aggiornamento. Ugualmente, se è noto che i re viaggiavano con funzionari amministrativi, letterati, poeti e artisti, vuol dire che costoro dovettero popolare pure il Castello di Lagopesole; qui si praticarono certamente discorsi di alto valore culturale, traduzioni di trattati scientifici, prove di inventiva retorica e poetica, insieme a svaghi più leggeri (che so io, balletti saraceni in occasione di sontuosi banchetti); va da sé, inoltre, che nel Castello si vissero non solo gioie e piaceri, ma anche lutti, prigionie e privazioni.
Laddove le fonti tradizionali si rivelano avare, intervengono altri saperi e altre discipline. Ciò è risultato tanto chiaro quanto evidente nella lettura che è stata fatta degli spazi (sia interni sia esterni) del Castello. Se la lettura archeologica è stata in grado di portarci indietro nel tempo, molto prima di Federico II e dell’epoca normanna, spiegandoci finanche le presenze riconducibili alla cultura islamica nell’Italia meridionale, la lettura architettonica invece ha illustrato bene le sovrapposizioni e gli intrecci tra le età normanna, sveva e angioina, richiamando contesti mediterranei oltre che europeo-continentali. D’altra parte la Cappella del Castello di Lagopesole, voluta molto probabilmente da Federico II, riporta alla Cappella di San Nicola di Bari o alle cappelle presenti nei castelli dei crociati in Terra Santa. Allo stesso modo, la decorazione scultorea del Castello di Lagopesole fornisce una pluralità di rimandi: il gotico transalpino, la tradizione classica e bizantina, il passaggio dal romanico al naturalismo sperimentale; e ci ricorda la circolazione comune di modelli, di temi, di maestranze e committenti, come pure la presenza di botteghe impegnate nella lavorazione artistica di materiali di estrazione locale.
In questo modo Lagopesole diventa luogo ameno soprattutto per aver visto confluire qui le migliori energie artistiche del Regno: un cantiere di rielaborazioni culturali, ha detto così Leonardo Pace. Ed ha ragione, suggerendoci oltretutto un’immagine suggestiva oltre che valida. Un’immagine che porterò con me, insieme al contenuto delle dotte relazioni presentate in questo convegno. Grazie, allora, per avermi invitato” (Riproduzione riservata©).
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Il testo sopra riportato è parte dell’intervento di chiusura al convegno svoltosi a Lagopesole in occasione della presentazione del libro Ad consueta solacia Lacus Pensulis – Il Castello di Lagopesole tra età sveva e angioina, curato da Fulvio della Donne. La trascrizione dell’intervento è a cura di Paolo di Castro.