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Andrea Tarabbia firma il nuovo (primo vero grande) romanzo su Carlo Gesualdo

1. L’incipit del romanzo

Non vi poteva essere scelta più felice di quella della Bollati Boringhieri, la casa editrice che ha pubblicato l’ultimo romanzo di Andrea Tarabbia, Madrigale senza suono, in cui l’autore si misura con la complessa figura del principe madrigalista Carlo Gesualdo (1566-1613), ovvero con le difficili tessere di una biografia umana e artistica che, attraversando da protagonista il crinale di fine Rinascimento e incipiente Barocco, è giunta fin dentro l’epoca nostra (non senza un carico di errori e credenze, di miti e leggende).

Davvero interessante è il pretesto narrativo del romanzo.

Los Angeles, 1960. Igor Stavinskij è entrato in possesso di uno strano manoscritto, il cui acquisto gli è stato proposto da uno stravagante personaggio incontrato in una libreria antiquaria di Napoli, durante un soggiorno italiano di alcuni anni addietro. Il testo contiene una Cronaca [inedita] della vita di Carlo Gesualdo da Venosa, del cui genio musicale Stravinskij aveva da poco avviato la riscoperta insieme al collaboratore e amico Robert Craft. La Cronaca presenta taluni dettagli formali: porta la firma di Gioachino Ardytti, uno sconosciuto signore che si autodefinisce “fedele servitore del Principe”, e risulta edita dalla stamperia Carlino presso il Castello di Gesualdo, in Irpinia, residenza elettiva di Carlo Gesualdo, in coincidenza oltretutto degli ultimi giorni di vita del principe, dal 22 agosto all’8 settembre 1613. Allora, ritornato in California, Stravinskij fa tradurre il manoscritto, rendendolo di accessibile lettura; poi lo chiosa, in funzione tra l’altro della composizione del Monumentum pro Gesualdo, la celebre opera che di lì a poco avrebbe rappresentato a Venezia; lo invia quindi per un parere a Glenn Whatkins, musicologo di fama internazionale, esperto di musica rinascimentale e barocca nonché dello stesso Carlo Gesualdo.

Orbene, la lettura critica dell’antico manoscritto da parte di Stravinskij, la veridicità o meno del suo contenuto, la singolarità di determinate vicende in esso raccontate, l’enigmaticità del suo autore, costituiscono l’asse di una trama tanto colta quanto avvincente, che dà vita ad un romanzo raffinato, importante, decisivo; ad un romanzo che per fortuna dei tanti cultori di storia gesualdiana, oltre che per bravura dell’autore, è stato scritto proprio così come si presenta.

2. Due precedenti letterari e il rinnovamento operato da Tarabbia

Scrivere un romanzo su Carlo Gesualdo significa confrontarsi innanzitutto con due riferimenti della letteratura gesualdiana: Assassinio a cinque voci di Alberto Consiglio (Berisio, Napoli 1967) e Testimone nell’ombra di Michel Breitman (Sugarco, Milano 1986).

Il primo è un romanzo storico ben scritto che risente però degli anni in cui esso è stato dato alle stampe, sia per la limitata conoscenza che allora si aveva di Carlo Gesualdo (ridotto a principe uxoricida, dedito alla musica e alla caccia più che ai doveri maritali) sia per la visione romantica – quasi shakespeariana – che orienta il racconto, per cui i due nobili amanti avrebbero quasi scelto di essere uccisi per consacrare la verità o la purezza del loro amore (Ahi, quant’è bello lo morire accisi, recita il titolo dell’ultimo capitolo del libro). Il secondo romanzo, invece, fa leva sulla tradizione letteraria del manoscritto ritrovato. Il testimone nell’ombra sarebbe un umile servitore del principe, che di questi riferisce la quotidianità delle azioni. Non tanto la musica, per la verità, e neppure le incombenze che caratterizzano la vita di un principe amministratore di un vasto feudo, quanto piuttosto abitudini personali, psicopatie sessuali, tendenze, manie e quant’altro è servito nel tempo ad alimentare i miti e le credenze di cui si diceva in principio (il sottotitolo del libro d’altra parte è alquanto esplicito: Il giardino degli orrori di Gesualdo da Venosa).

Che Tarabbia superi in potenza entrambi i romanzi, è cosa che si evince fin dalle prime battute di Madrigale senza suono. Vero è, poi, che Tarabbia rinnova i generi cui quei romanzi si ascrivono. Michel Breitman, ad esempio, rispettando le forme canoniche consacrate dal Manzoni, dà per vero il manoscritto ritrovato; il suo compito pertanto è darne semplicemente notizia, rivelandone i contenuti. Tarabbia no: il suo manoscritto è messo in discussione fin dall’inizio. L’autore di quest’ultimo, inoltre, Gioachino Ardytti, pur professandosi umile servitore del principe e pur descrivendosi impietosamente (basso, schiacciato, brutto, deforme, grosso di testa e molle di petto), è ben lontano dall’essere un “testimone nell’ombra” che spiffera ai posteri quanto crede di vedere. Nel caso di Tarabbia i termini andrebbero meglio invertiti: Ardytti è l’ombra stessa del principe (dopotutto così l’autore lo presenta ai lettori), ombra che si fa testimone di una vita giunta ormai al suo tramonto e che, per questa ragione, merita di essere ripercorsa in tutta fretta, prima che essa svanisca per sempre. Ed è ammirevole l’abilità di Andrea Tarabbia nel dar luogo ad uno stupefacente gioco di specchi che riguarda non solo i personaggi (costretti a fare i conti con l’anima e la coscienza), bensì la scrittura stessa, cosicché la finzione finisce con l’essere amante della verità e il manoscritto ritrovato, sottoposto a dubbi di autenticità, finisce con l’essere profondamente rispettoso della storia. (Riproduzione riservata©). [Continua > per andare alla Parte II > clicca qui].