La vita prodigiosa di Isidoro Sifflotin: il regalo di Enrico Ianniello all’Irpinia / 1
1. Premessa
“Siffloter”, nella lingua francese, vuol dire fischiettare; ma il fischio, il fischio in sé, può costituire esso stesso una lingua. Vi sono dei casi noti di “lingue fischiate”, oggi in gran parte studiati, che dimostrano come il suono che si emette fischiando – con l’intenzione di comunicare qualcosa – non sia solo appannaggio degli uccelli. Vi sono dunque dei fischi – si direbbe – organizzati in lessemi e sintagmi, in fonemi e morfemi, che alcuni popoli utilizzano per integrare o sostituire addirittura la lingua parlata, il che vuol dire per esprimere o scambiarsi pensieri e sentimenti, notizie e informazioni. Capita così che in alcuni villaggi della Cina e del Brasile, oppure sulle montagne di Oxaca nel Messico meridionale, nella piccola città di Kuşköy in Turchia come anche a Gomera, isola dell’arcipelago delle Canarie, si possano udire fischi a chilometri di distanza, in grado cioè di oltrepassare fitte foreste o luoghi montuosi e impervi, utilizzati dagli uomini con uno scopo ben preciso: veicolare significati condivisi dai membri di una stessa comunità.
Dando poi retta a “Renò”, allievo immaginario di Lévi-Strauss, professore inesistente di etnologia presso l’università di Parigi, ma reale conoscitore di Michel Foucault, grazie ai fischi e al linguaggio fischiato si sarebbe da qualche parte organizzata pure una certa “rivoluzione”.
Il romanzo di Enrico Ianniello, La prodigiosa vita di Isidoro Sifflotin (Feltrinelli 2015), parte da qui, dall’idea del fischio quale linguaggio rivoluzionario, e vi costruisce intorno una storia che – intrisa di realismo magico – può essere considerata “prodigiosamente strabica”, munita cioè di un’infallibile “vista laterale”. Da un lato, dunque, lo sguardo che conduce dritto alla meta, al punto fisso del racconto (i cambiamenti di vita che si nutrono di separazioni e scoperte); dall’altro lato, invece, l’asse visivo che – divergendo dal precedente – conduce la narrazione verso approdi tanto inaspettati quanto gioiosi: l’arte sopraffina, ad esempio, di raccontare il mondo attraverso la sua stessa ricreazione, attraverso la trasformazione della materia in fischio appunto, ovvero in canto, danza, poesia, romanzo o “gioco di parole”.
2. Il valore delle parole
Già, le parole! Come si può pensare, sostenere e convincere che queste non sono affatto necessarie, che esse possono essere non solo integrate ma sostituite completamente da un fischio, che il fischio è in grado non solo di comunicare ma di rendere l’uomo più vicino alla natura, molto simile agli uccelli, quindi felice e libero, libero da ogni bisogno? Come si può cancellare il verbo, riscrivere la storia e dire In principio era il fischio, e il fischio era presso Dio e il fischio era Dio, affrancando l’uomo da ogni intermediazione esistente tra il cielo e la terra? E, soprattutto, come può farlo un romanzo?
È qui che Ianniello esercita tutta la sua abilità di scrittore, per dare forma alla consapevolezza secondo cui i cambiamenti – a maggior ragione se epocali – si realizzano sui crinali della storia, quelli che al contempo separano e uniscono più cose, come il bisogno crescente che abbiamo di parole e la necessità di emanciparsi dalle stesse. Ecco allora che il romanzo, munito come si diceva di una formidabile vista laterale, agisce su due piani distinti e complementari cogliendo il processo di trasformazione auspicato nel momento esatto del rinnovamento, della ricostituzione del mondo e dei suoi vari nessi, che nei loro accoppiamenti finiscono col perdere ogni residuo di casualità. Laddove dunque il fischio sostituisce le parole, lì la parola si fa più forte, indispensabile, e il romanzo diventa un’apologia della parola stessa, esaltata quest’ultima sotto una varietà di forme e tonalità: parole divertenti, pungenti, ma anche delicate e commoventi; parole del dialetto, con tutte le sue sfumature, ma anche della poesia colta capace di farsi “strumento umano”; parole ereditate dal passato, ma anche plasmate per il tramite di simpatici neologismi; parole costruite su misura, cucite quindi addosso ai singoli personaggi oppure modellate intorno alle singole situazioni di cui si vuole restituire di volta in volta il contenuto (l’innocenza dell’infanzia, la spontaneità della vita di paese, il primo innamoramento, la scoperta della musica o di ciò che esiste “oltre”, oltre il mondo in cui si è confinati).
E si potrebbe continuare seguendo il tratto di penna dell’autore: parole utili e altre di cui se ne potrebbe fare tranquillamente a meno perché “parole storte” (come quelle per cui “uno finisce col piangere sfottuto e l’altro col ridere sfottendo”); parole che creano confusione e altre che al contrario mettono ordine (“lesta” per dire “legenda della pasta”, ad esempio, è una “parola nuova e pulita” che contribuisce ad alleggerire la confusione che la gente altrimenti farebbe tra i diversi formati di pasta, ordinando erroneamente “tagliatelle” al posto di “tagliolini” e “pettonelle” in luogo di “lavanelle”); parole dette a vanvera e altre bisognose di essere codificate in un vocabolario (o, meglio, trasferite in un “fischiabolario”); parole sacralizzate (perché pensate per essere scritte in lettere d’amore, perché ritagliate e custodite in scatole di latta, perché trascritte segretamente sui margini di un libro) e parole diversamente ritualizzate (magari attraverso le semplici regole di un gioco familiare); parole ancora lasciate alla libertà del momento, che danno il coraggio di dire ciò che si pensa, e altre che pretendono di avviare cambiamenti straordinari se solo vengono sussurrate di notte all’orecchio del proprio bambino, agevolandone un sonno sereno, a dispetto dell’avvenire o di una vita che si spegne (Chi non ha sofferto, canticchia. Chi ha sofferto, canta).
Le parole di Ianniello ovviamente non si fermano qui e, secondo la prospettiva personale di chi scrive, esse riflettono tradizioni, incidono sul tema delicato della memoria, agiscono in termini identitari; inducono cioè una intera porzione di territorio a riflettere su un momento significativo della propria storia, promuovendone la comprensione prima che la conoscenza; il lettore irpino – come si dirà – viene ancorato beneficamente alla specificità del suo contesto di appartenenza, che prende forma nelle relazioni tra persone, natura e cultura; le comunità coinvolte nel racconto vengono avviate lungo percorsi narrativi che finiscono col vivificare il proprio contesto di vita (gli scenari naturali e urbani, le memorie passate, le testimonianze materiali e immateriali), proponendo finanche vie di uscita a “problemi mefitici” del tempo presente. In questo senso, si può gioire della fortuna che una scrittura creativa, così ricca di spunti e aperture, abbia scelto esattamente il contesto in cui il romanzo è ambientato, sospeso anch’esso – come i suoi protagonisti – tra evasione e responsabilità, tra desiderio e accettazione.