Parte V / Riflessioni su Madrigale senza suono, il nuovo romanzo di Andrea Tarabbia
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11. Un viaggio di andata e ritorno: da Stravinskij a Gesualdo e da Gesualdo a Stravinskij
Il viaggio che Tarabbia compie, narrando tutto ciò, non è di sola andata. Se Stravinskij, con la scoperta del manoscritto e la traduzione dello stesso, consente al lettore d’inoltrarsi nelle pieghe più riposte di un celebre personaggio dell’antichità, è pur vero che quest’ultimo – parlando di sé – offre a noi la possibilità di conoscere meglio Stravinskij. Capita così che un romanzo sul rinascimento artistico diventi d’improvviso un romanzo sul ‘900 musicale. D’altra parte le chiose del maestro russo, che accompagnano la lettura della Cronaca dell’Ardytti, agevolandone la comprensione, sono coeve alla composizione di un’opera (il Monumentum) che consacrerà la stagione stravinskiana del serialismo, il suo periodo dodecafonico iniziato nel momento esatto della riscoperta gesualdiana, che è – al tempo stesso – scoperta di un mirabile ponte che collega la storia alla contemporaneità.
I parallelismi che Stravinskij annota rispetto alla vita di Gesualdo sono numerosi: anch’egli è gracile d’aspetto e instabile di salute come il principe, anch’egli ha sposato una cugina, anch’egli ha architettato e composto la sua musica in qualunque condizione e luogo, fino a stabilire la sua fortezza nello studio di Los Angeles, dopo aver abbandonato Parigi come il principe abbandonò Ferrara. E non gli è mancata – per così dire – la corte artistica, avendo anch’egli intrecciato rapporti con i massimi esponenti della cultura del suo tempo: non Caravaggio ma Picasso, non Torquato Tasso ma (fra i tanti) Dylan Thomas. La sua casa paterna, similmente alla residenza nobiliare del papà di Carlo, Fabrizio Gesualdo, poteva vantare prestigiose presenze, a cominciare da Dostoevskij. E anche lui aveva avuto il suo Scipione Stella, pronto a baciare le mani dell’allievo: Nikolaj Rimskij-Korsakov. Ma non si tratta solo di questo.
Tarabbia di Stravinskij ci dice le abitudini di lavoro, racconta della sua ironia, rivela dettagli interessanti (oltre che sul Monumentum) sul Canticum sacrum, che è la sua prima vera opera dodecafonica; ci informa del suo giudizio sulle voci che egli cerca per le proprie opere e che vorrebbe fossero “saltabeccanti” come l’antico scritto che ha tra le mani (anzi, quanto incisivo è il paragone con la vite e il suo traliccio!); ci dice la valutazione tecnica che il maestro russo esprime nei confronti della musica in genere. E conferma un’idea: ogni passione fondata culturalmente non può non tradursi nella visita materiale ai luoghi che seppero ispirare opere di impareggiabile valore, ospitandone oltretutto la produzione. Di qui il viaggio di Stravinskij alla scoperta di Gesualdo, in compagnia anche lui di una fedele “ombra”, quella di Bob Craft.
Sia pure soltanto in calce, va sottolineato che l’itinerario di Stravinskij, ugualmente a quello proposto da Gioachino Ardytti nella sua cronaca, si presenta nondimeno come percorso nell’universo sottile dei simboli animali. Un gioco coltissimo e pieno di rimandi letterari che di sicuro vale la pena apprendere e trattenere, in quanto le metafore animali si pongono come “vasi sanguigni” dell’intero libro, capaci di dischiudere alla vista innumerevoli mondi. Per rimanere a Stravinskij, allora, non è un caso che l’incipit del romanzo sia affidato alla scimmia che realmente invase il giardino di casa sua, segno del destino, ossia simbolo di trasformazioni, del dialogo tra gli strati superiori e inferiori della coscienza, oltre che parodia (in questo caso, autorevole) della scrittura; e non è un caso che la scoperta del manoscritto presso la libreria antiquaria di Napoli sia guidata da un cane nero zoppo alla gamba posteriore sinistra. Segnale non proprio celeste, in cui si coglie un avvertimento, lo stesso che il servitore Ardytti dà al suo principe allorquando nel Collegio romano riferisce dell’episodio raccontato da Quintiliano a proposito delle conseguenze nefaste prodotte dal musicista che esegue la melodia in una scala sbagliata; un avvertimento ancora che Stravinskij sembra riproporre (forse in modo inconscio) nel momento in cui afferma: “provo una specie di terrore quando mi trovo davanti alle infinite possibilità che la creazione musicale, in astratto, offre e provo la sensazione che tutto sia permesso”. Una sfida, insomma, che tocca infiniti mondi e infiniti cieli e che può essere chiamata a fare i conti con il demone che si nasconde nei sotterranei della coscienza.
Non tacerò infine un ultimo pensiero: nella camminata di Stravinskij tra i vicoli napoletani mi è piaciuto scorgere i passi pure di un altro autore che – in quel modo – ha incrociato Gesualdo, traducendolo sul piano narrativo. Mi riferisco a Gustaw Herling che, riallacciandosi ad Aldous Huxley, in Madrigale funebre (non un romanzo, ma un racconto edito da Feltrinelli nel 1999), inaugurò una qualificata ripresa della letteratura gesualdiana. Una scalata che Andrea Tarabbia adesso porta a compimento con un’opera veramente molto bella, raffinata, importante e decisiva. (Riproduzione riservata©).