Quante cose si apprendono da Napoli, vista allo specchio!
Se è vero, com’è vero, che la pubblicazione di un libro (di ogni libro) deve sempre vincere una sfida principale, essere innanzi tutto un buon esercizio di scrittura, Specchio napoletano di Antonio Scoppettuolo (Lastarìa Edizioni, 2018) soddisfa in pieno tale obiettivo primario. Centodiciotto pagine di convincente letteratura, infatti, accompagnano il lettore tra i “vicoli” di sette storie, più due riportate in appendice; storie di amore e di adii, così recita il sottotitolo del libro; storie, ancora, ambientate a Napoli o che con Napoli fanno i conti, come le narrazioni in presa diretta di Fulvio Tessitore e di Luca De Filippo: in verità, due eleganti dialoghi che – riportati appunto in conclusione di libro, a mo’ di appendice – hanno due importanti meriti. Da un lato, essi danno ancoraggio contemporaneo ad una trama che attinge, con dovizia di particolari, al patrimonio culturale partenopeo ottocentesco di resistenza romantica (anche di fronte all’incedere di travolgenti novità positivistiche); dall’altro lato, gli stessi restituiscono il richiamo dell’appartenenza o il desiderio del ritorno (si direbbe, una speranza romantica) ad autorevoli osservazioni contemporanee prive di infingimenti, che nulla possono tacere o nascondere della realtà odierna.
Due tempi, allora, quello di ieri e quello di oggi. Il tempo della storia, comunque, sembra mostrarsi più generoso. Nel tempo presente, ricorda in prefazione Franco Di Mare, il fatto che Napoli sia uno dei pochi luoghi al mondo a conservare una periferia nel centro della città non ha agevolato certo la trasformazione della forzosa coesistenza in una pacifica convivenza civile, fatta di scambi, confronti e reciproche influenze. Anzi, aggiunge Scoppettuolo nella sua introduzione, l’ideale di una proficua osmosi è stato quasi annientato dalla lesiva tendenza degli uomini ad innalzare muri, che si pretendono oltretutto invalicabili anche all’interno di uno spazio comune. Il pericolo che si corre è di vivere paradossalmente “dentro le stesse mura senza respirare la stessa aria”. Di qui le stridenti contraddizioni dell’attualità, per cui all’abbandono non è dato incontrare la modernità, al degrado il fascino, allo scempio l’arte, affinché le cose possano capovolgersi in positivo. Laddove, però, la storia – con l’aiuto e la competenza di chi si assume la responsabilità di raccontarla – consente a chi la legge o a chi ascolta di entrare nelle sue “stanze segrete”, svelandone l’umanità, il mondo sembra assumere quasi un nuovo aspetto o una nuova forma: il passato accoglie in sé il presente che, a sua volta, fa ingresso nel passato spogliandosi dei suoi quotidiani nascondimenti, dei suoi innumerevoli equivoci, trovandosi infine costretto a riflettere – in modo tanto proficuo quanto ineluttabile – sul proprio destino.
Con questo intento, indurre cioè la Napoli di adesso a rispecchiarsi nella profondità della sua anima, al di là di ogni finzione, simulazione o ipocrisia, Scoppettuolo costruisce le sue storie. Lo fa attraverso la tecnica detta dei flow of thoughts, perché probabilmente “nessuno di noi sa con precisione dove finisce se stesso e dove inizia ciò che gli è del tutto estraneo” (ma il ritmo descrittivo serrato ed avvincente si addice molto bene alla vita frenetica e senza sosta dei “quartieri”); lo fa, poi, oltrepassando agevolmente i confini sociali e antropologici (quelli tra nobile e plebeo, tra sacro e profano, tra scienza e superstizione); lo fa, inoltre, giocando con la realtà e la finzione insieme, obbligate sapientemente a rincorrersi (Giovannella alla Sanità o il giovane Amedeo, tanto per citare i primi due personaggi che si incontrano nel libro, diventano reali nel momento stesso in cui la Cappella della Confraternita dei Bianchi della Giustizia oppure la fontanella di Capo Posillipo diventano luoghi letterari).
Il fondamento teorico su cui poggia l’intera impalcatura narrativa è anch’esso chiaro. I temi fondanti di cui il libro tratta (l’amore, l’amicizia, l’arte, l’architettura, la religione, la scienza, la bellezza in genere e la cultura in particolare, intesa quest’ultima nella sua accezione più ampia, sia popolare sia accademica) vengono storicamente collocati dall’autore su un fondo inequivocabile di “sofferenza” (interiore ed esteriore al tempo stesso). Non a caso, la metafora predominante è quella del “corpo malato”. La traduzione più eloquente la si trova sintetizzata in alcune parole del vecchio professore Pasquale Palladino, geologo all’Università di Napoli. La sequenza che egli propone è emblematica: l’uomo, considerato come organismo vivente, diventa in tutto e per tutto simile ad una pianta, ad un albero che, per crescere e non ammalarsi, ha bisogno senz’altro di un buon terreno, ossia dei valori di cui si diceva esattamente sopra. Questo è vero non solo per i singoli individui, bensì per le comunità, per le collettività viste e considerate nel loro insieme, le quali ugualmente hanno bisogno di basi tanto solide quanto stabili. In siffatta prospettiva, il tufo giallo napoletano (roccia effusiva) tornerà a più riprese nelle pagine del libro in chiave simbolica, per simboleggiare cioè la responsabilità che gli uomini hanno nella scelta dei materiali da costruzione, i materiali con cui si edifica un futuro o si pianificano le scelte utili per l’avvenire. Dopotutto, conclude il professore, la vita viene dalla lotta degli elementi, dalla guerra che una natura ingaggia contro un altro tipo di natura.
Illusoria tuttavia è l’idea che, scrollandoci di dosso il male, amputando la parte malata e gettandola via da sé, il corpo torni in salute (l’osservazione è ripresa da Ernst Bloch). Discende da una simile consapevolezza l’importanza che assume, nel contesto di cui si è detto, la “cura dei mali”. Sarà questa volta il professore Felice D’Onofrio (medico e sacerdote presso l’Ospedale degli Incurabili, tra gli ultimi esponenti della gloriosa scuola medica napoletana che annoverò – fra gli altri – Domenico Cotugno e San Giuseppe Moscati, suo maestro) a ricordare che “curare significa non arrendersi mai”, sul piano fisico come pure su quello spirituale: “Anima e corpo, viscere, sangue e lividi insieme a incenso, litanie e spirito: tutto si tiene dove non esiste distinzione tra tempo sacro e tempo profano, dove tutto viene fatto con sacralità”. Insomma, umanità dolorante (come nelle tele seicentesche di cui Napoli è piena), epoche martoriate (come dal colera durante il Risanamento), sofferenze intime ed esistenze difficili: “tutto si tiene, se viene fatto con sacralità”.
Il richiamo sacrale compiuto da Antonio Scoppettuolo per il tramite di Felice D’Onofrio è il richiamo stesso alla tenuta dei valori, al rispetto consapevole delle radici e delle identità, onde essere guidati nell’età del cambiamento, dinanzi alle grandi scelte, tra il bene e il male, tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, comprendendo – non solo per istinto – quale sia la strada giusta da percorrere: “la strada buona che porta ai Pellegrini” (a Napoli luogo per antonomasia della Santissima Trinità) “oppure la strada cattiva che conduce alla Vicarìa” (antico quartiere partenopeo che si identificava con una Gran Corte di giustizia istituita per i giudizi criminali).
È l’errore che commette Nello, il protagonista dell’ultimo racconto, munito di efficacia pacificante. Quindicenne, ma già uomo fatto, innamorato della sua Chiarella, in cerca di un lavoro vero, non quello di inserviente presso la Chiesa di Santa Maria la Nova, colma quest’ultima di opere d’arte, grandiose sì, ma incomprese, causa anzi per il giovane di forti inquietudini, a cominciare dall’Ecce homo di Giovanni da Nola, vero e proprio capolavoro, Nello fa lo sbaglio di cedere alla superstizione, rimanendone purtroppo vittima. Convinto di essere affetto da zinzillusa (la sfortuna), Nello chiederà aiuto al professore Lorenzo Bianchi, non in qualità di psichiatra, bensì di medico interessato al mistero, pertanto frequentatore assiduo di casa Alvarez, dimora di note “sedute notturne”.
Scoppettuolo, nel suo scritto, attingendo alla scrigno immenso della tradizione popolare di Napoli (laddove scienza e superstizione, sacro e profano, volgo e nobiltà, veramente sono andati a braccetto) richiama spesso – per dirla con una battuta – la presenza degli spiriti: spiriti che tormentano i vivi e che vanno scacciati con le parole che soltanto alcuni sacerdoti conoscono e sanno pronunciare (come nel caso della povera Giovannella posseduta dall’anima del duca di Olivares, morto in malo modo nel 1687 e perciò in cerca di vendetta) oppure spiriti che ai vivi chiedono la collaborazione per mantenere fede a promesse d’amore spezzate da una sorte crudele (come nel caso di don Filippo Cascione e Anna Maria Griffo, anime buone eppure in pena nella chiesa del Purgatorio ad Arco a via dei Tribunali). Altri spiriti, invece, vengono evocati di proposito e per i motivi più disparati (come nel caso del generale De Vittis, che Nello ha l’ardire di chiamare al capezzale della sua personalissima disperazione, con disappunto di tutti gli altri nobili presenti).
La seduta spiritica, pertanto, si risolverà in un “insuccesso medico”, nonostante il giovane Nello fosse un uomo del popolo, “un fanciullo che non ha tutte le incrostazioni delle scienze e delle arti e per questo più sensibile al fluido dell’aldilà”. Ma stiamo attenti, avverte l’autore. L’abdicazione assoluta verso l’arte e la scienza, l’assenza quindi di un necessario contemperamento tra la ricerca e la costruzione di un’identità, con la prima che guarda indietro e la seconda in avanti, rischiano di portare al baratro, alla rovina, ad un punto di non ritorno, cosicché la decapitazione di un’opera d’arte, l’incompreso capolavoro di Giovanni da Nola, fungerà da cattivo presagio, divenendo il preannuncio di una brutta sventura.
Le cose sarebbero andate diversamente se il povero Nello, entrando nella stanza deputata al fatidico incontro, avesse trovato la specchiera, collocata sopra al camino, libera dal bianco lenzuolo che al contrario la copriva: un segnale fin troppo eloquente, che impedisce ad una “stanza” di essere “luogo di pensiero e di preghiera”, secondo la bella definizione di Scoppettuolo.
Nato quale debito formativo nei confronti della città di Napoli, amata dall’autore tanto da ambientare in essa riferimenti biografici propri, riconducibili alla terra irpina, il libro supera di gran lunga i confini dichiarati: entra in casa Alvarez e ne libera, ne scopre lo specchio, suggerendo al lettore di misurarsi con se stesso, al di là di ogni possibile finzione. (Riproduzione riservata©).
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Antonio Scoppettuolo è un giornalista RAI. Dottore di ricerche in Scienze filosofiche, ha pubblicato diversi saggi di filosofia ed etica.