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Cento di questi anni!

Cento di questi anni è il titolo di un bel video-racconto realizzato da Daniela Riccardi.

Napoli, quartiere Vomero. In uno stesso parco vivono tre centenari. A bussare alla loro porta è proprio Daniela Riccardi, intenzionata a raccontare come lei sa fare – unendo cioè le competenze di giornalista, di sceneggiatrice e di documentarista – tre storie legate dalla forza dell’età, di un’età davvero importante, cui si rende omaggio in maniera delicata ed originale. In questi casi, infatti, il rischio di cadere nella banalità narrativa è sicuramente molto alto. In altre parole: trovarsi dinanzi ad un centenario e cedere alla tentazione di domandargli il segreto della longevità, dello stare bene e del mantenersi in forma, è cosa piuttosto normale, umana forse, ma al tempo stesso pure scontata e professionalmente sconveniente.

L’autrice, allora, non a caso, ha deciso di eliminare l’ascolto delle sue domande dal cortometraggio. E in quest’ultimo la si vedrà soltanto di sfuggita, intenta tra l’altro ad ascoltare, ammirata. L’intervista insomma scompare e l’autrice stessa si ritrae, ricomponendo in sede di montaggio i fili di una trama che riesce a sovvertire finanche i termini classici del confronto generazionale. Più esattamente. Il modo occidentale di rapportarsi alla terza età di solito contempla lo sforzo che i “giovani” compiono per offrire agli anziani la pienezza del loro tempo, considerandolo tuttavia distante dal proprio, percepito invece come frenetico e produttivo. Cosicché, per quei medesimi anziani, sembra non si possa far altro che concedere loro, gentilmente, i ruoli o gli spazi ritenuti utili ad alleggerire il peso di sentirsi d’intralcio in molte cose della quotidianità. Più raramente avviene il contrario: anziché donare, rendere; anziché regalare ed elargire attenzioni, restituire la scena a chi parla da protagonista, rispondendo con ciò ad un preciso obbligo morale, visto che le generazioni successive ricavano dalle generazioni precedenti saggezza, maturità ed esperienza.

In tal modo, agli occhi dello spettatore, i centenari di Daniela Riccardi si presentano definiti fin da subito: “Non mi è sembrato di avere cent’anni”, dice un riflessivo Mario Cenzato commentando la sua festa di compleanno; “Gli esami non finiscono mai”, afferma invece l’esplosiva signora Egle Cuomo Habatswallner, appassionata di moda e mondanità; “Anche le pietre raccontano una storia”, infine, è l’incipit di Ruggero Florio, amante della fotografia.

Bastano queste semplici parole iniziali, di presentazione, per comprendere la modalità di racconto prescelta: i padroni di casa, che amorevolmente hanno accolto in salotto un’autorevole ospite, rimarranno tali; e l’ospite non tradirà le aspettative, facendo sì che i suoi interlocutori diventino – da oggetto – soggetti del racconto; non persone del passato, bensì del presente; non vecchi conservatori estranei alle dinamiche del progresso, bensì interpreti privilegiati dello stesso, interpreti cioè – non tanto dei cambiamenti in atto quanto – di quel misterioso movimento di ideali e valori che sempre sorregge e guida una convivenza sociale (ebbe modo di scrivere così Giovanni Paolo II rivolgendosi agli anziani del nuovo millennio e citando Norwid, poeta romantico polacco tra i meno convenzionali).

Con la consapevolezza pertanto che l’eternità è un dato caratteristico sia del futuro sia del passato (giacché quest’ultimo si ripresenterà all’improvviso – diceva Norwid – sotto forma di “idea”), sceneggiatura, regia e montaggio intrecciano tre magnifiche storie centenarie, che l’imperfezione della parola scritta a mo’ di recensione scioglierà adesso per comodità di lettura, sperando di non pregiudicare troppo il senso e lo spirito di un percorso narrativo unitario. Sì, perché Ruggero, Egle e Mario, come detto, rappresentano – individualmente e tutti e tre insieme – un patrimonio di ideali e valori comuni destinati a dare forma e sostanza al sentimento del passato.

In termini dunque di memoria collettiva, con l’intento di ricostruire e comprendere il significato profondo di un’appartenenza, conviene mettersi all’ascolto dei nostri personaggi, ciascuno dotato di una caratterizzazione identitaria notevole.

Ruggero Florio si rivede prima bambino, poi ragazzo. Da bambino incontra Totò e a rimanergli impresso – a dire il vero – non è soltanto un volto noto, il principe di una risata forse ancora troppo sofisticata per un bambino di nove anni, ma anche la scena calcata dall’attore, ovvero il palcoscenico del Teatro Nuovo di Napoli che Ruggero definisce “piccola opera d’arte”.  Da ragazzo, viceversa, Ruggero ama stare all’aperto e percorrere, finita la sua giornata lavorativa, nonché munito di cartina topografica, tutte le strade di Napoli: una città in pieno fermento, travolta dalla ricostruzione post-bellica e guidata da un indimenticato Achille Lauro, giudicato meritevole di “ricevere una sua personalissima poesia”. Dopo aver acquisito da uno dei fratelli i segreti della fotografia, a cominciare dalle tecniche di ripresa, Ruggero fotograferà appunto tutto quanto gli capiterà sott’occhio – persone e paesaggi – rimpiangendo la qualità del bianco e nero “rispetto al colore che subito sbiadisce”.

Egle Cuomo Habatswallner è a dir poco esplosiva ed è lei stessa a delineare i molteplici aspetti della sua personalità. Cognome viennese, moglie di un gentiluomo parco di carezze eppure ricco di attenzioni, buona ma determinata, tanto da picchiare un borseggiatore, disposta ad imparare dagli altri, Egle non rinuncia a selezionare le giuste compagnie, adeguandosi e adattandosi quando l’etichetta lo richiede. Cittadina del mondo, ricorda nitidamente la Capri degli anni ’50: Liz Taylor avvistata nel ristorante di via Longano, senza Richard Burton, oppure Soraya ospite del mitico Quisisana, dove si vociferava che lo Scià di Persia facesse giungere ogni mattina un regalo per la sua Principessa nonostante la fine del loro matrimonio. Su tutto, però, prevale la passione per la moda, così autentica da aver imparato Egle a cucire gonne ricavate da scialli dismessi, “senza neppure saper prendere le misure!”, dice. Una vera impresa, si sottolinea con ironia, per una donna che ha lo straordinario dono di chiedere a se stessa, alla soglia dei cent’anni, “non so se ho più preso o più dato”: frase che certo dimostra la consapevolezza compensativa che una vita generosa o fortunata senz’altro impone alla coscienza delle persone perbene.

Le parole di Mario Cenzato vanno dritte al cuore. Il giorno in cui egli ha oltrepassato il secolo di vita, parenti e amici gli hanno organizzato una gran bella festa di compleanno, ma a cena lui non ha assaggiato alcunché  data l’emozione. Gli hanno regalato poi un viaggio in Terra Santa, a Gerusalemme, un viaggio di cui si lamenta la brevità e non la fatica, nonostante i quattro chilometri a piedi e la difficoltà di procedere in salita prima di giungere alla meta del Golgota. Nulla, evidentemente, in confronto alla Guerra di Libia. Qui la narrazione si fa storia. Il 10 giugno 1940 Mussolini annuncia la guerra contro l’Inghilterra e la Francia. Si parte per la Libia. Mario incontra un amico d’infanzia, capocuoco in un reparto di alti ufficiali. Alla fine della guerra viene catturato insieme ad altri 110.000 Italiani, incastrati dagli Americani che giungevano dall’Algeria e dagli Inglesi già stanziatisi in terra libica. Mario si spaccia per cuoco di professione. Viene trasferito ad Algeri, nel porto di Bona, a suo giudizio una piccola Napoli, in un campo di prigionia di cui si ricordano con esattezza i reticolati, i camminamenti e i pranzi frugali a base di ceci. Quindi la svolta: gli chiedono di lavorare per gli Inglesi e lui dice di sì, insieme ad un compagno veneto.

Amante della cucina fin da piccolo, Mario ha imparato dalla mamma le cose che ella preparava. Specialità culinarie che in seguito lui avrebbe riservato alle figlie, dopo la morte della moglie, onorando tutti gli anniversari che finiscono col comporre le storie familiari. La ricetta della cosiddetta “pizza di scarola”, descritta nei minimi dettagli, commuove, perché sintesi di una vita e di tutto l’amore che essa contiene, perché illustrata con la semplicità di chi non crede affatto di essere stato un “eroe”, pur essendolo diventato lentamente – passo dopo passo – nella vita di tutti i giorni.

Da Veneto ho trovato il mio benessere a Napoli, godendo di una città bella ed ospitale“, conclude Mario congedandosi dagli spettatori; “città ospitale in tutto e per tutto“, aggiunge. E lo dice senza malizia, senza avere Feltri negli occhi, se mi si passa la battuta, seduto tra i suoi libri e i suoi ricordi, compresa la fotografia che lo ritrae da giovane, bello come un attore di Hollywood!

Bravissimo Giorgio Molfini nel valorizzare i dettagli di ripresa. Bravissima Daniela Riccardi: artefice, ancora una volta, di un preziosissimo cammeo.

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