Irpinia 1980
Ricordo quasi tutto di quella tragica sera del 23 novembre 1980. L’eccezionalità di questa affermazione sta nel fatto che avevo allora sette anni; e si sa bene che è alquanto difficile ricostruire nei minimi dettagli momenti confinati in uno spazio così lontano della propria fanciullezza. Io, invece, come credo ogni mio coetaneo, sono in grado di riferire – in ordinata sequenza – ciascuno degli attimi vissuti durante la violenta scossa di terremoto, come pure le ore successive e i giorni più acuti dell’emergenza. Ma non è propriamente di questo che vorrei parlare. La confidenza riguarda piuttosto il susseguirsi di talune situazioni, di talune immagini, che mi hanno accompagnato a lungo negli anni senza che però potessi dare alle stesse il giusto nome, la giusta collocazione o la giusta motivazione in una gerarchia precisa di valori. D’altra parte, quante cose appaiono oscure agli occhi dei bambini!
Più esattamente: quale motivazione avrebbe potuto addurre un bambino al fatto che degli adulti litigassero tra loro – e in malo modo – sul numero di coperte e cappotti da spartirsi, quando nel proprio «accampamento» si lamentava l’assoluta mancanza di difese contro il freddo e il gelo? Che idea avrebbe dovuto farsi un bambino della strana circostanza secondo cui i pacchi-dono inviati dalla Croce Rossa recavano il nome (scritto a penna) del destinatario? Quale logica egli avrebbe dovuto ricercare nel movimento delle ruspe che, da un lato, abbattevano meticolosamente le abitazioni risparmiate dal sisma e, dall’altro lato, cavalcavano cumuli di macerie senza riguardo o perizia alcuna? Come spiegarsi in quel momento il deciso rifiuto opposto dai propri genitori alle autorità, che cercavano di riempire pullman deputati – si disse poi – a sradicare i senzatetto dalle proprie terre, deportandoli verso gli alberghi della costiera? Con quale nome, ancora, si sarebbe potuta indicare a quell’età la persona sorpresa a manomettere la serratura della porta di casa o l’altra vista allontanarsi ambiguamente dalla chiesa parrocchiale?
Suppongo che lo sconforto, il disappunto e la rabbia di chi – già adulto – non avrebbe mai voluto che tutto questo accadesse, abbiano impedito all’«impertinenza» tipica dell’infanzia di chiedere effettivamente conto di quanto si stesse osservando. Le letture compiute negli anni successivi, tuttavia, avrebbero dato sostanza a quei ricordi: il discorso alla nazione tenuto dal presidente Pertini, la rimozione dal proprio incarico del prefetto di Avellino, la politica sostenuta dal commissario straordinario Zamberletti, i numerosi resoconti giornalistici, fotografici, cinematografici e letterari, rappresentano oggi «storie» e «fonti» preziose che andrebbero riprese e approfondite – soprattutto nelle scuole – per superare una fase commemorativa ormai troppo lunga e onerosa per l’Irpinia.
Ho l’impressione che da noi si tenda ancora ad esorcizzare una riflessione tanto ampia quanto serena sulle ferite aperte dal terremoto – molte delle quali mai rimarginate – pagandone uno scotto enorme, non solo in termini di ricostruzione. Eppure un buon modo per onorare la memoria delle vittime, che il nostro territorio ha dovuto contare a migliaia, potrebbe consistere nel rammentare alle nuove generazioni – senza infingimenti, senza retorica e senza edulcorazioni – come la tragedia dell’80 riuscì a produrre ben poche «virtù», visto che la solidarietà nazionale, l’impegno dei volontari e lo slancio della parte civile del Paese andarono presto dispersi, lasciando il posto ad insanabili piaghe.
Si considerino le conseguenze prodotte dall’eccessivo ritardo nei soccorsi, dall’inesistenza di un piano organico per fronteggiare l’emergenza, dall’impreparazione diffusa nella gestione della stessa; si pensi all’assenza di controlli atti a prevenire casi di sciacallaggio e di infiltrazioni camorristiche, al cinismo della classe dirigente, che non esitò a sostenere politiche di sgombero a dir poco offensive; si ponga mente allo stanziamento di ingenti somme di denaro pubblico senza vincoli di destinazione, all’industrializzazione fantasma, allo spregiudicato uso degli aiuti, al razzismo che ne derivò nell’opinione pubblica nazionale.
Si tratta di aspetti che – nostro malgrado – hanno finito col forgiare un determinato modo d’intendere la politica, l’amministrazione degli enti locali nonché il rapportarsi alle istituzioni da parte di un’«utenza» che – pur cambiando i tempi – non ha mai smesso di raffigurarsi forse in termini di assistenza, nell’attesa di agognati benefici.
Una riprova di ciò può essere ricercata nel rigido tecnicismo che governò la fase post-terremoto, priva quest’ultima di intenti – si direbbe ora – culturali. La speculazione, infatti, non fu certo l’unica ragione che guidò l’azione degli uffici tecnici comunali e la mano di tanti amministratori, ingegneri, architetti, periti e costruttori, impegnati a cancellare (più che a preservare) le tracce identitarie di intere comunità, rafforzando – ahimè! – un evidente malcostume politico. Segnalare l’uso elettorale che in passato s’è fatto (ma che in parte si continua a fare) dei fondi previsti per la ricostruzione dalla legge 219 del 1981, non è sufficiente a testimoniare nella sua pienezza il significato completo di una tragedia.
Sono convinto che il terremoto abbia rappresentato la bilancia reale su cui sono state soppesate le nostre qualità storiche, intellettuali, civili, politiche, economiche, sociali, ambientali e finanche psicologiche. A distanza di quarant’anni esatti, pertanto, una disamina critica delle stesse non è più evitabile né può continuare ad essere rinviata all’infinito.
L’inattesa congiuntura dell’80, domando, ha costituito davvero la morte del meridionalismo italiano? Ha segnato davvero un’insanabile distanza tra noi e l’insigne lotta che caratterizzò uomini quali Pasquale Villari, Giustino Fortunato e Guido Dorso?