Storie del quotidiano
Tempi di ricordi. Per qualche anno, direi giovanissimo per la nostra società, sono stato editorialista presso una testata giornalistica. Gli articoli venivano pubblicati in prima pagina, di sabato. Un editore locale ne raccolse gran parte, dando vita poi ad un agevole saggio nel 2008. Del libro scrissi l’introduzione, che ho ritrovato adesso. Rileggendola oggi, devo ammettere, cambierei talune cose, seppur piccolissime. Il tempo dei ricordi, tuttavia, ha a che fare più esattamente con le letture formative citate in nota, che hanno guidato – sì, guidato – gli articoli di allora, di quasi 15 anni fa, aiutando l’interpretazione degli “eventi” resi di volta in volta oggetto di considerazione. Pur prescindendo da questi ultimi e dai fatti di cronaca collegati, ho l’impressione che l’impianto argomentativo regga tuttora. Ho pensato così di riproporre qui quell’introduzione, insieme al titolo del libro, che ne riflette – in un certo qual modo – la natura quantomeno duplice.
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[…] Faccio di professione lo storico del diritto e, quando capita, mi diletto a scrivere «pezzi giornalistici». Guardo, infatti, con favore l’interscambio tra la penna dello storico e quella del giornalista, convinto della positiva influenza esercitata reciprocamente dai due «campi di lavoro».
L’attività giornalistica, ad esempio, ammonisce di continuo sul peso che assumono la routine e il senso comune; la «non intenzionalità» del quotidiano troppe volte eliminata dall’ottica valutativa dello storico. Quest’ultimo, invece, è portato più di ogni altro alla valorizzazione della dimensione fattuale della vita, nel senso che egli non è predisposto ad attribuire ai fatti l’evidenza che essi stessi manifestano. Merito della virtù dello «straniamento», direbbe Ginzburg, l’atteggiamento che induce lo storico ad accostarsi ad un testo come a qualcosa di opaco, alimentando – e non riducendo – i dubbi che fortunatamente si nutrono sull’obiettività della conoscenza.
Lo stesso succede con le persone.
«L’idea che tutti si capiscano – dice ancora Ginzburg – è illusoria. Al contrario il fraintendimento, la difficoltà di comprensione fa parte dei rapporti normali, anche fra persone che appartengono alla medesima cultura. Non capire una persona come premessa per capirla meglio: questo sforzo è necessario e passa attraverso il riconoscimento dell’opacità»[1].
Le conseguenze di questo modo di operare sono evidenti.
Segnalo innanzi tutto che lo strumento conoscitivo per eccellenza finisce con l’essere comune allo storico e al giornalista, consistendo esso nella capacità di porre domande; le domande giuste, si dirà più avanti, capaci di ottenere risposte convincenti, spianando così la strada ad una ricerca di sensi e di significati. Fermo restando che aspirare alla «trasparenza» non vuol dire affatto impadronirsi della stessa: va da sé, infatti, che ogni domanda posta è suggerita dalla propria visione del mondo, dalla propria formazione, da griglie e filtri mentali imprescindibili; cosa per cui ogni ricostruzione che viene proposta è pur sempre il frutto di una personale attività interpretativa o, meglio, di traduzione, condizionata da comportamenti sociali e da credenze, pratiche, atteggiamenti[2].
Ne discende che la pretesa neutralità dei discorsi (come vedremo, finanche delle istituzioni[3]) è una finzione chimerica, destinata a dissolversi nella prospettiva che puntualmente si adotta e si comunica all’esterno, contaminata – come essa è – dai mille valori che compongono la nostra esistenza.
Il punto di vista più radicale, tuttavia, sostiene l’inevitabile tradimento dell’intrinseca bontà di queste premesse dato che la continua proiezione nel passato delle convinzioni del presente e, viceversa, l’attraente ritrovamento nella storia della strada rivelatrice della contemporaneità, porta ad assumere – nella migliore delle ipotesi – un ambito ruolo giudicante, di natura prevalentemente moralizzatrice, e – nella peggiore – una spregiudicata funzione manipolatrice, speculare ad una spasmodica ricerca di visibilità e di consenso.
Nell’uno e nell’altro caso la principale via di scampo viene individuata nell’attitudine a smascherare gli artifici del linguaggio, gli inganni delle discussioni, tanto più frequenti quanto più forte spira il vento del cambiamento e maggiore diventa la consapevolezza di vivere in complicati momenti di transizione[4]. Si tratta di un tentativo di decifrazione della realtà, di comprensione dei nuovi meccanismi della società, che oggi riguarda chiunque si senta impegnato a riflettere su come si stia modificando il nostro modo di pensare e di agire: dalla filosofia all’ermeneutica, dal diritto alla psicologia, dalla semiotica alla teoria letteraria, dalla teologia alla matematica – e non di meno dalla storia al giornalismo – la dimensione problematica dell’esistenza costituisce un leit motiv necessario ed obbligato.
L’esemplificazione che noi proporremo riguarderà principalmente il discorso politico. D’altra parte, su questo versante, è stato facile notare come all’annunciato declino delle vecchie certezze – dalla crisi della ragione allo sgretolamento ideologico[5] – non si è fatto altro che contrapporre un’imbarazzante «retorica del quotidiano», indicativa soprattutto del facile innamoramento per stili culturali che sono in realtà difficili da gestire in quanto reazioni concrete alle tendenze proprie della modernità. Una «modernità liquida», secondo l’illuminante immagine di Bauman[6] utilizzata anche nei discorsi comuni; in ogni caso una delle descrizioni più suggestive dei nostri tempi caratterizzati – dice[va] lo studioso – da un’inarrestabile fluidità, che passa attraverso l’assenza di legami forti, di sentimenti unificanti; attraverso il rifiuto costante del dialogo, del riconoscimento altrui, dell’altrui cultura, delle altrui radici e tradizioni[7]; dove tutto è ridotto a comunicazione, segno, forma, messaggio: la politica come l’economia, l’amore come l’amicizia[8].
Da più parti si continua a sostenere che il miglior antidoto contro questa «incomunicabilità tra mondi» andrebbe scovato nell’elaborazione di concezioni minimaliste nonché nella flessibilità e mitezza delle soluzioni individuabili; certo è che l’essersi rifugiati a lungo nel tempio dell’universalità (dei diritti e dei doveri[9]) ha favorito il consolidamento di un pauroso processo di svalutazione identitaria, di esclusione degli individui – descritti nei testi legislativi come tutti uguali – dalle comunità reali o virtuali immaginate dal potere. Difatti quello che si sosterrà nelle pagine seguenti è che le logiche di disuguaglianza (sociale, economica e culturale) hanno caratterizzato strutturalmente il mercato inteso come forma dell’organizzazione sociale; l’emblema – io dico – dell’ambiguità di cui stiamo discutendo e che porta a ritenere che la nostra storia recente possa essere raccontata non come progressiva conquista di diritti, bensì come perdita inesorabile degli stessi da parte di una maggioranza «generale ed astratta» di fatto esclusa dai processi produttivi, cognitivi e decisionali[10].
Valga per tutti il tema dell’ambiente e dei rifiuti per dimostrare come lo scollamento istituzionale di cui si parla è consistito senz’altro nel lento allontanamento degli «apparati» dalle realtà amministrate, tra l’altro in un momento in cui pure le istituzioni culturali hanno smesso di analizzare criticamente le direttive prevalenti nella vita associata, rinunciando a mettere in guardia l’opinione pubblica per il tramite di consigli costruttivi. Credo che giunga da qui la difficoltà che adesso avvertiamo nell’individuare gli esatti contorni di taluni reati, la linea di confine tra ciò che è permesso e ciò che al contrario non lo è e, in definitiva, la nuova dimensione in cui sono stati ricacciati i concetti essenziali ispiratori del senso comune.
Quale sia la valenza simbolica[11] di questo risultato è quasi superfluo precisarlo. Già il Pinocchio di Collodi spiegò bene le difficoltà formative in una Italia animata da ambigue atmosfere, dimostrando come l’abdicazione educativa – a lungo andare – finisce col costituire essa stessa un valore, uno strumento idoneo ad inculcare schemi di costruzione della realtà, a modellare in maniera subliminale i nostri nuovi immaginari[12].
Volentieri riporto qui l’osservazione, riprodotta in seguito, di Piero Camporesi per rammentare che è proprio «l’aporia della vita, la mancanza della pienezza dell’essere, la percezione della malinconica limitatezza della condizione umana a mettere in movimento una gigantesca macchina di soluzioni compensative, a costruire un laboratorio privato di sogni e di desideri, di mediatori di oblio»[13]; che noi abbiamo creduto di poter scorgere, ad esempio, nella fatica che si prova ad essere se stessi[14] o nello stravolgimento dello spirito che dovrebbe informare le feste popolari[15] o, ancora, nell’incapacità di interpretare fino in fondo l’anima di un territorio.
Per rappresentare questa triste sinalgìa utilizzeremo più in là le figure di Carlo Gesualdo, l’eccelso madrigalista cinque-seicentesco, e di Giovanni Gussone, tra i fondatori della moderna botanica. Infatti, tanto l’incapacità di strutturare localmente la fama del primo quanto l’oblio che ha riguardato i meriti scientifici del secondo illustrano ottimamente i dettagli di un’evidente miopia: la scarsa attitudine a trasformare le molte «frontiere» impostesi nel tempo in zone di contatto, in punti di incontro dove celebrare – ognuno secondo il proprio modello interpretativo – affascinanti «scoperte», importanti «traduzioni», improvvise «ibridazioni» o inattese «creolizzazioni». Per quanto ci riguarda, l’utilizzo che si farà della metafora del viaggio verso le isole della storia (cominciando da quella chiamata utopia[16]) sottintende una precisa scelta discorsiva: rendersi partecipi di una «narrazione» convincente dei cambiamenti in atto; una narrazione – si potrebbe aggiungere – capace di spiegare come troppo spesso, nel variopinto mondo degli incontri culturali, le «parole» utilizzate non coincidono con le «cose» indicate così come le «immagini» evocate non sempre corrispondono ai «fatti» auspicati[17].
Se dovessi semplificare tutto questo argomentare attraverso due parole-chiave, non esiterei ad utilizzare semplicemente quelle di «progresso» e di «identità», che sono davvero i punti focali dei dibattiti affrontati[18]. E in effetti ci si accorge subito che parlare di disagio giovanile, di emergenza ambientale, di politiche turistiche o di precarietà della memoria, anche in contesti limitati di osservazione, significa mettere in discussione – né più né meno – la centralità sia del progresso, inteso come ideologia unificante, sia dell’uomo, visto come dominatore saggio della natura per mezzo della scienza e della tecnologia; significa ancora – sotto diverso aspetto – racconto e messa in scena di una «rivoluzione identitaria».
Per dirla autorevolmente con Paolo Prodi: «Il grande problema che abbiamo davanti è di capire qual è il mondo che stiamo lasciando per poter anche comprendere quanto di esso portiamo dentro di noi nel difficile passaggio verso un’altra civiltà dove le nuove tecnologie danno alle trasformazioni in atto un ritmo sempre più accelerato»[19]. Non evito, però, di domandarmi quale sia l’effettiva percezione di questo nuovo tempo che fa ingresso nella storia.
Interrogando gli alunni della scuola primaria di un vasto circondario sull’idea di progresso da loro posseduta in ordine al proprio ambiente di vita, emblematica fu l’identificazione che un bambino propose tra il turista ed un mendicante che, desideroso di sollevare se stesso dalla fatica di infinite peregrinazioni, finiva col proseguire altrove la sua ricerca. Fatta di cosa? Il compito non forniva in verità alcuna risposta, ma le suggestioni che ne ricavai furono tante. Tra queste il mito di Ulisse e del suo ritorno ad Itaca.
Propongo a tal proposito una lunga citazione di Salvatore Nicosia:
«Nei confronti di una realtà, politica e sociale, mutata per il lungo trascorrere degli anni, ostile per l’insorgere di una nuova democrazia non più disposta a riconoscere il potere e l’autorità dell’antico sovrano, indecifrabile nella mappa dei sentimenti e delle disposizioni d’animo nei suoi confronti, Ulisse deve avere il vantaggio dell’incognito […] Legati ai luoghi, ai rapporti sociali, alle cose, alle occupazioni, gli altri non possono occultare la propria identità, mentre […] Atena si incarica di mutare la fisionomia di Ulisse trasformandolo in un vecchio mendicante: sostituisce ai biondi capelli la calvizie, fa avvizzire la sua pelle intorno al corpo, appanna la luminosità dei suoi occhi, lo veste di un cencio, in maniera da farlo apparire irriconoscibile»[20].
Eppure l’autore non manca di sottolineare come queste sono sovrastrutture culturali capaci certamente di trarre in inganno altri esseri culturali, ma inefficaci di fronte alla forza di un istinto che isola l’essenza liberandola da ogni consapevole modificazione. È così per il cane Argo, al quale è sufficiente il solo suono della voce per riconoscere il proprio padrone; è così per la nutrice Euriclea, alla quale invece non sfugge l’inoppugnabile fisicità della ferita palpabile sulla gamba dell’eroe.
A questo punto mi chiedo: le storie quotidiane, anche quelle raccontate dalle pagine di un quotidiano, possono immetterci sulle tracce della voce di Ulisse o della sua palpabile ferita; dell’istinto cioè che libera dalle strategie dell’occultamento, dell’elusione, della metamorfosi, della dissimulazione e della clandestinità? Rispondo semplicemente che le «microstorie» che ho potuto registrare si sono rivelate come un osservatorio privilegiato, ricco di testimonianze significative; un filtro sensibile e uno specchio acuto attraverso cui osservare, appunto, tanta parte della cultura italiana di questi anni.
Esse, inoltre, hanno rafforzato in me un’antica convinzione: che il consenso etico, di cui oggi avvertiamo forte il bisogno, non può essere né imposto né cercato, ma semplicemente costruito con intelligenza; e con pazienza ricostruito, consapevoli della storicità dei concetti, dei processi e degli eventi.
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NOTE
[1] Carlo Ginzburg è tra i principali esponenti della cosiddetta «microstoria», attenta soprattutto alla varietà e alla specificità delle culture locali. Tra le sue opere più recenti consiglio la lettura di Miti, emblemi e spie. Morfologia e storia, Einaudi, Torino 2000 e di Rapporti di forza. Storia, retorica, prova, Feltrinelli, Milano 2001. La citazione utilizzata nel testo è tratta dal dialogo che Ginzburg ha avuto con Arnold I. Davidson sul tema «Il mestiere dello storico e la filosofia» nell’ambito del festival «vicino/lontano» di Udine e contenuto nel n. 339 della rivista «Aut Aut», edita da Il Saggiatore e diretta da Pier Aldo Rovatti. Sulla professione giornalistica, invece, numerosi sono gli spunti offerti da O. Bergamini, La democrazia della stampa: storia del giornalismo, Laterza, Roma-Bari 2006 e da P. Sabbatino, Giornalismo letterario a Napoli tra Otto e Novecento: studi offerti ad Antonio Palermo, Edizioni scientifiche italiane, Napoli 2006.
[2] Si tratta di una «svolta interpretativa» dovuta essenzialmente al contributo degli antropologi; tra questi mi piace citare C. Geertz, Interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna 1998; J. Clifford, Strade. Viaggio e traduzione alla fine del XX secolo, Bollati Boringhieri, Torino 1999; M. Douglas, Purezza e pericolo. Un’analisi dei concetti di contaminazione e tabù, Il Mulino, Bologna 2003.
[3] In questo senso utilizzeremo alcune considerazioni di G. Riccio, Ideologie e modelli del processo penale. Scritti, Edizioni scientifiche italiane, Napoli 1995; ma si consultino pure gli articoli raccolti in A. Mazzacane (a cura di), I linguaggi delle istituzioni, Cuen, Napoli 2001. Si v. inoltre M.R. Lepsius, Il significato delle istituzioni, a cura di A. Cavalli, Il Mulino, Bologna 2006 e A.G. Ricci, Il primo governo parlamentare dell’Italia repubblicana, in «Le Carte e la Storia», 2/2006, pp. 13-26 [Introduzione a F.R. Scardaccione (a cura di), Verbali del Consiglio dei Ministri. Maggio 1948-luglio 1953, Presidenza del Consiglio dei ministri, Dipartimento per l’informazione e l’editoria, Roma 2006]. Per un inquadramento generale G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, voll. I-V, Feltrinelli, Milano 1956-1986.
[4] Utile a tal proposito il saggio di L. Canfora, Critica della retorica democratica, Laterza, Roma-Bari 2007. Interessanti poi le prospettive di analisi avanzate da W.J. Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Il Mulino, Bologna 1986. Sempre attuale U. Eco, I limiti dell’interpretazione, Bompiani, Milano 1990.
[5] È lo spettro rinvenuto tra due letture compiute in tempi diversi, e oramai distanti: A. Gargani, Crisi della ragione. Nuovi modelli nel rapporto tra saperi ed attività umane, Einaudi, Torino 1979; G. Bedeschi, La fabbrica delle ideologie. Il pensiero politico nell’Italia del Novecento, Laterza, Roma-Bari 2002.
[6] Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari 2002.
[7] Si cfr. G. Alessi, Il soggetto e l’ordine. Percorsi dell’individualismo nell’Europa moderna, Giappichelli, Torino 2006, pp. 5-6.
[8] Si cfr. P.L. Celli, Le virtù deboli, Apogeo, Milano 2007, pp. 53-56. I motivi dell’individualismo e della liberazione dai vincoli del legame sociale sono presenti in H.D. Thoreau, Vita senza principi [1854], a cura di G. Gerevini, La Vita Felice, Milano 2007 (da questo saggio [p. 67] ho ripreso l’esempio degli «Indù» di cui si dirà in seguito nel libro).
[9] Due immagini suggestive del «pluralismo culturale» si ritrovano in J. Habermas-Ch. Taylor, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Feltrinelli, Milano 2001 e in G. Teubner, Diritto policontesturale: prospettive giuridiche della pluralizzazione dei mondi sociali, a cura di A. Rufino, Città del Sole, Napoli 1999. Il più noto divulgatore dell’«organizzazione flessibile», invece, è stato il sociologo Alvin Toffler, ma si v. da noi G. Zagrebelsky, Il diritto mite, Einaudi, Torino 1992. Sul tema dell’universalità dei diritti rinvio semplicemente ai chiarimenti di L. Ferrajoli, I diritti fondamentali. Un dibattito teorico, a cura di E. Vitale, Laterza, Roma-Bari 2002.
[10] Il richiamo diretto è all’introduzione di G. Todeschini, Visibilmente crudeli. Malviventi, persone sospette e gente qualunque dal medioevo all’età moderna, Il Mulino, Bologna 2007, pp. 7-14, ma anche a due opere ivi citate, E. Canetti, Massa e potere, Adelphi, Milano 1997 e M. Nussbaum, L’intelligenza delle emozioni, Il Mulino, Bologna 2004. Inoltre si faccia riferimento a B. Anderson, Comunità immaginate. Origine e fortuna dei nazionalismi, Manifestolibri, Roma 2000 e a V. Strada, Consenso/dissenso, in «Enciclopedia Einaudi», v. 3, Einaudi, Torino 1978, pp. 806-17.
[11] Preciso qui che con gli attributi «simbolico», «quotidiano», «flessibile», «plurale» ed «autoreferenziale» intendo riferirmi a correnti culturali specifiche, racchiuse oggi sotto l’etichetta di «postmodernismo». Sul punto rinvio ai chiarimenti bibliografici di A.M. Hespanha, Introduzione alla storia del diritto europeo, Il Mulino, Bologna 2003.
[12] Utilizzando il disagio giovanile quale «luogo» privilegiato di osservazione, il libro di M. Benasayag-G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano 2005 spiega bene come la crisi della cultura moderna occidentale abbia travolto i concetti «classici» non solo di individuo, identità, libertà, senso ma anche di natura, etica, politica, religione e storia. Inoltre, l’argomento della rivoluzione giovanile come aspetto tipico della civiltà tecnologica si ritrova in V. Frosini, La democrazia nel XXI secolo, Ideazione, Roma 1997, pp. 132-134; mentre la «disillusione» sessantottina è descritta convincentemente da A. Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione: 1968-1978, storia critica di Lotta continua, Sperling & Kupfer, Milano 2006. Per una spiegazione romanzata ed ironica delle difficoltà in cui versano i giovani professionisti si consiglia la lettura di D. De Silva, Non avevo capito niente, Einaudi, Torino 2007.
[13] P. Camporesi, Il paese della fame, Il Mulino, Bologna 1985, p. 46.
[14] La fatica di essere se stessi è il titolo di un’opera di A. Ehrenberg, edita in Italia dall’Einaudi (1999), da noi utilizzata per spiegare la «misura» oggi impiegata nella valutazione del rapporto tra individuo e società.
[15] Su questo tema non si è voluto prescindere dalla mirabile «fonte» rappresentata dallo studio di G. Cocchiara, Storia del folklore in Europa, Boringhieri, Torino 1971 (di esso si cfr. in particolare le pp. 487-496).
[16] Su questo punto rimando semplicemente all’autore che utilizzerò più avanti, F. Ainsa, I tempi della libertà, Volontà, Milano 1995.
[17] In letteratura viene definita literal mindedness la criticata impossibilità di andare oltre il senso letterale di una parola o la forma apparente dei fatti. Nel testo in particolare riprendo una suggestione «foucaultiana» utilizzata da A. Mazzacane, La cultura giuridica del fascismo: una questione aperta, in Id. (a cura di), Diritto economia e istituzioni nell’Italia fascista, Nomos, Baden-Baden 2002, p. 6.
[18] Alle letture già consigliate aggiungo quelle di C. Barbè, Progresso e sviluppo. La formazione della teoria dello sviluppo e lo sviluppo come ideologia, Giappichelli, Torino 1974; G. Jervis, Presenza e identità, Garzanti, Milano 1992; Ch. Taylor, Radici dell’io. La costruzione dell’identità moderna, Feltrinelli, Milano 1993; D. Sparti, Soggetti al tempo. Identità personale tra analisi filosofica e costruzione sociale, Feltrinelli, Milano 1996; L. d’Avak, Ordine giuridico e ordine tecnologico, Giappichelli, Torino 1998 (in particolare le pp. 71-116); P. Lévy, Le tecnologie dell’intelligenza. Il futuro del pensiero nell’era dell’informatica, Ombre corte, Verona 2000. Solo in margine ricordo che la «critica delle fonti» si è arricchita negli ultimi anni di numerosi e rilevanti contributi che hanno messo in discussione finanche la «certezza darwiniana» del tempo evolutivo. Per una critica al comune modello storico-evoluzionistico nonché sul più ampio rapporto uomo-sistema è possibile rintracciare una significativa bibliografia di respiro internazionale in M.T. Fögen, Storie di diritto romano. Origine ed evoluzione di un sistema sociale, Il Mulino, Bologna 2005, pp. 9-17. Infine, sul dibattito identità/diversità davvero molteplici sono le suggestioni ricavabili dal raffronto tra J. Le Goff, Intervista sulla storia, a cura di F. Maiello, Laterza, Roma-Bari 1982 e C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, Il Saggiatore, Milano 1971.
[19] P. Prodi, Introduzione allo studio della storia moderna, Il Mulino, Bologna 1999, p. 160.
[20] S. Nicosia (a cura di), Ulisse nel tempo. La metafora infinita, Saggi Marsilio, Venezia 2003, p. 10.