La vita prodigiosa di Isidoro Sifflotin: il regalo di Enrico Ianniello all’Irpinia / 3
6. Insegnamenti di vita e avvertimenti
Il gioco dell’effervescenza prodotto dall’Idrolitina, appena richiamato, tra le tante immagini evocative proposte dal libro non è certo la principale e rischia anzi di passare quasi inosservata, circondata come essa è da una lunga serie di rappresentazioni toccanti e seducenti. Ciò nonostante quella visione spiega bene un presupposto basilare del racconto: i cambiamenti, se non intervengono le fratture imposte dal destino o gli sbalzi improvvisi decisi dalla natura, avvengono o avverrebbero pianamente, attraverso cauti passaggi di consegna. Il “fischiabolario”, in fondo, incarna siffatta idea. In termini meno specifici però si potrebbe far riferimento a ciò che – classicamente – definiremmo “insegnamenti” o “lezioni di vita”; insegnamenti e lezioni che è dato apprendere in famiglia ma che determinano uno “scambio di bollicine” ulteriore rispetto alla semplice successione generazionale. Ci si riferisce alla presenza di echi universali in vicende minute, all’incessante saliscendi dal piano generale al piano particolare e viceversa, grazie alla saggezza di cui risultano impregnate certe “raccomandazioni” intorno alle quali si genera un senso forte di appartenenza, tanto familiare quanto comunitario. Un miniera di suggerimenti preziosi cui attingere nei momenti di difficoltà, quando ci si trova di fronte a scenari inaspettati, inconsueti e sconosciuti, la cui interpretazione e il cui governo diventano indispensabili finanche per la propria stessa sopravvivenza.
Emblematico, sotto questo aspetto, è l’insegnamento ricompreso sotto il titolo Sparte e capisce (separa e capisci): “Tutte le cose che crescono –
dirà mamma Stella a Isidoro – si separano e la vita fa come l’albero: dal tronco si separano i rami, dai rami le foglie, dalle foglie i fiori; poi si separano i semi che vanno lontano, come hanno fatto i nonni, i figli, i nipoti […]. Allora – continua Stella – se c’è qualcosa che non si riesce a capire l’importante è trasire dentro una cosa o una persona e cominciare a separare, separare un ramo da un altro ramo, una foglia dall’altra […]”.
Separare per capire, perdere per prendere: le parole di Stella Dimare troveranno completamento in quelle che più tardi Renò, il professore di etnologia giunto in Irpinia per studiare il fenomeno di Isidoro, pronuncerà presso il proprio studio, un capannone preso in affitto nella campagne di Villamaina, a due passi da Gesualdo, il paese natio di suo padre, in risposta ad un dubbio di Quirino. Questi, accompagnando Isidoro da Renò, lo troverà vestito da “albero”, in verità da “Rumit” (l’eremita), una maschera tipica del carnevale di Satriano lucano. Perché ci si veste così? domanda Quirino. “Per comprendere”, risponderà Renò. Ovverosia: “Per capire non basta la testa, cambiando una parte del corpo invece sì. Se perdi, puoi prendere; se perdi una parte di te, ne puoi prendere un’altra e capire”.
L’altra faccia della medaglia è nell’avvertimento che ogni insegnamento inevitabilmente porta con sé. La scrittura del “fischiabolario” pretesa da Renò in termini etnologici, ad esempio, rispetto a quello rudimentale ideato da Nocella, se da un lato ha la forza di trasformare un capanno in studio e lo studio in conservatorio, all’interno del quale apprendere più cose (gli esercizi di estensione vocale, la musica vera e così via), dall’altro lato sottintende un rischio evidente: la scomparsa di un patrimonio immateriale, la perdita del fischio filtrato dalle corde vocali – imparato da Alì – in seguito all’ingresso di Isidoro nel mondo adulto e, di conseguenza, alla trasformazione della sua voce. L’importanza dell’insegnamento, in tal caso, è funzionale a dei moniti ugualmente potenti: “tutto passa, tutto si rompe” (parola di Renò); “se i sogni dei ragazzini si trasformano subito in realtà, la realtà dei grandi non è disposta a trasformarsi in sogno” (parola di Alì).
7. Il potere delle tradizioni
Stesso registro vale per le tante tradizioni locali che è possibile cogliere nelle pagine del libro. L’elenco ricavabile è davvero nutrito.
A) La pratica dei soprannomi
Basti pensare che l’esordio del romanzo è affidato alla pratica – ben nota – dei nomi e dei soprannomi. All’epoca, dirà fin dal principio Isidoro, e abbiamo detto di trovarci sul finire degli anni ’70 del Novecento, si “portava scegliere” dei nomi strani, ma non a caso. Nomi scelti a tono con il cognome, là dove il primo calzava a pennello col secondo, così come una maglietta calzerebbe bene col suo pantalone. Si rappresentano subito degli esempi divertenti: Giardino, figlio del signor Fiorito, quindi Giardino Fiorito; oppure Isola, figlia del dottor Dellamorte, per cui Isola Dellamorte. Ad Isidoro era andata tutto sommato bene. Figlio di Quirino Raggiola, aveva ereditato un cognome che in italiano suonava come “Mattonella”. Figlio dunque della coppia Raggiola Dimare, “Mattonella di mare”. Con quel cognome, lui, Isidoro, avrebbe potuto essere soprannominato benissimo “Spacca Raggiola”, “Scassa Mattonella”. E invece no: se sarà più in là il professore e amico Renò a ribattezzarlo Sifflotin, sulla base del francese siffloter (fischiettare), erano stati nel frattempo i compagni di scuola a riconoscerlo sotto il nome di “Pocapanza” per via della sua eccessiva magrezza (malgrado l’appetito direttamente proporzionale alla notorietà di Stella quale autrice di gustosissime trafile di pasta, ricercate in ogni trattoria d’Irpinia).
B) La pasta fatta in casa
Ecco allora un’altra tradizione: la pasta fatta in casa. La descrizione di Stella di Mare come Stella di pasta non manca di poesia. Nella casa di Isidoro ogni mattina, alle otto in punto, “sale la nebbia” causata dalla farina, mentre l’impastare diventa lo spettacolo degli spettacoli. La mamma, preparandosi al rito, raccoglie i capelli in un foulard bianco di lino grezzo, che prende da quelli piegati a triangolo e conservati in un cassetto del comò. Poi, accanto alla farina, ci sono gli altri ingredienti: di qui un lavoro compiuto in silenzio dove prevalgono i gesti e la centralità del corpo, dei muscoli, dell’intelligenza, del respiro e del sentimento. E come per magia la casa di Isidoro diviene una vera spettansìa, uno spettacolo della fantasia; una casa fatta di pietre e malta cioè si trasforma in una casa di pasta, quando quest’ultima – ormai lavorata – ha bisogno di riposare e la si vede pertanto adagiata praticamente dappertutto, in ogni angolo e su ogni ripiano.
C) Feste
Il cibo non può che essere oggetto di un’altra tradizione: le feste. Da un lato, le feste private e familiari, caratterizzate dalla gioia del giorno prima, quando amiche e comari soccorrono la proprietaria di casa nei preparativi per il giorno dopo, cosicché si lasciano mariti e figli ad una cena di fortuna, si fa per dire, che si traduce in una sfilza di “cosarelle”: salame, prosciutto, soppressata, caciotta, provolone dolce, provolone piccante, pane, insalata di pomodori, peperoni arrostiti, melanzane a funghetto, scarole ripassate con l’uvetta e una crostata con la marmellata. Insomma, “una vigilia di Natale fuori calendario” (espressione consona e veritiera!). Dall’altro lato, invece, ci sono le feste pubbliche, le sagre di paese con le bancarelle che vendono pietanze di ogni tipo, dai primi ai dolci, alle mandorle zuccherate adorate dai bambini; feste caratterizzate da luci, vie gremite di gente e palchi al centro delle piazze.
D) Donne
Una citazione a parte meritano le donne descritte da Ianniello.
Isidoro, tornando in bicicletta dalle prove tenute con Nocella in vista del suo primo concerto che si terrà a Lacedonia, in occasione della sagra del peperone imbottito, viene colto dalla pioggia improvvisa di una primavera appena iniziata. Per strada s’imbatte in Ginetta Campolattano, una vecchietta che torna anche lei dalla campagna in compagnia di un mulo e di tre capre, munita provvidenzialmente di un grande ombrello nero. Dire che Isidoro, grazie a questa donna, troverà riparo dall’acquazzone è dire poco e male. Il termine esatto, capace di cogliere il senso dell’intera scena, è “cura”. Si segua la sequenza narrativa: Ginetta, vestita da capo a piedi dello stesso colore del suo ombrello, sfila da una piega della sua lunga gonna una mela annurca avvolta in un panno sporco di tutta la terra della campagna; quindi la sbuccia, senza lasciare il manico dell’ombrello incastrato perfettamente tra il collo e la spalla; terminata l’operazione, passa la mela (bianca, dolce e rotonda) a Isidoro e lo farà con quella mano contadina che, piena di calli, è in grado di curare appunto – con la magia del gesto – un incipiente mal di gola che rischia di tramortire il fischio allenato del piccolo Isidoro. Ampliando angolo visuale, si può affermare che il romanzo restituisce concretamente la realtà dei paesi degli anni Settanta, in cui le donne – con il loro essere accomodanti – costituivano il perno delle comunità, che contribuivano così a mantenere salde intorno a valori di fondo. La stessa Stella Dimare non si sottrae alla regola: comunista per il marito Quirino, secondo un copione d’amore piuttosto usuale, senza ipocrisia alcuna ella appare cattolica agli occhi del parroco e musulmana per l’amica albanese.
E) “Capacità normalizzante”
Nell’elenco delle tradizioni potrebbe inserirsi nondimeno la “capacità normalizzante” dei paesi, intendendo con questa l’attitudine delle piccole comunità a riportare nel proprio alveo talune “stranezze” che, lasciate libere di attecchire, logorerebbero anziché rinsaldare i rapporti tra le persone. Si pensi alla pacifica accettazione finale della pratica dei soprannomi o al pregio di superare, quando veramente lo si vuole, convenzioni emarginanti: la diffidenza, ad esempio, che in un paese del Sud si poteva avere verso una coppia non sposata con prole, indipendentemente da ogni argomentazione possibile sull’Amore e sulla Legge!
F) Gli echi di esperienze lontane
Lo “scambio di bollicine”, per continuare nella nostra metafora, procede anche nel senso di marcia opposto: non solo dalle tradizioni locali agli insegnamenti generali, con i dovuti avvertimenti utili a sostenere percorsi che si riveleranno in salita, bensì la presenza nei contesti locali di echi appartenenti ad esperienze diverse e complessive. Le lotte sindacali, ad esempio, apicali sul finire degli anni Settanta, non mancano di turbare la tranquilla vita di Quirino e della sua famiglia. Dinanzi a due giovani operai che hanno in animo di rapire il figlio del “padrone sfruttatore”, Quirino eserciterà tutta la sua abilità retorica per scongiurare l’operazione, smontando la baldanza di una malintesa militanza. Emulando il Berlinguer di cui ogni mattina sente parlare alla radio, Quirino riuscirà a dire le cose che contano: che la proprietà non va confusa con la persona; che le idee buone non vanno bruciate, consumate cioè con atti irresponsabili; che i nobili ideali per i quali è lecito lottare, a cominciare dall’uguaglianza e dalla giustizia sociale, servono davvero a poco se abbandonati alla rabbia piuttosto che al pensiero. Talvolta però, e l’abbiamo ormai imparato, le parole da sole non bastano per convincere. Non a caso sarà l’urlafischio di Isidoro, nella sera del concerto di Lacedonia, a sventare il rapimento dello stesso Quirino, sospettato di alleanza col padrone. Dopotutto, anche i convinti rapitori non potevano rimanere insensibili al fatto che per la prima volta un bambino, con un insolito fischio, aveva trasformato quattrocento persone gremite in una piazza in quattrocento uccelli, insegnando loro a rompere la gabbia delle parole e a sentirsi finalmente uniti, liberi e forti (alla maniera dei “criaturi e degli artisti”).
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