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Erice e la Scuola Internazionale di Diritto Comune

Dal 23 al 27 settembre scorsi, nel tradizionale contesto di Erice, si è svolta la 43esima edizione della Scuola Internazionale di Diritto Comune diretta da Manlio Bellomo, Kenneth Pennington, Orazio Condorelli e Wim Decock, quest’anno dedicata al tema: Common Good and Common Goods in the Tradition of the “ius commune”.

Vi ho preso parte per riferire i primi risultati di un lavoro di scavo documentale che si sta compiendo presso i principali “Archivi del Regno di Napoli” in materia di proprietà collettive e usi civici, con particolare riguardo al decennio napoleonico.

Se dunque numerose opere hanno già affrontato il tema dell’eversione della feudalità, si sottolinea che l’approccio ora scelto si basa sulla ricognizione e sull’analisi di fonti primarie in gran parte ancora inesplorate: un materiale documentario di straordinario valore che, messo a disposizione degli studiosi, offrirà nuove chiavi di lettura per meglio comprendere ed interpretare un periodo così ricco di trasformazioni, costretto a fare i conti con il diritto comune dei secoli precedenti.

Sono trascorsi ormai 50 anni da quando Paolo Grossi diede alle stampe un libro meritatamente fortunato dedicato all’emersione di forme alternative di proprietà dinanzi alla coscienza giuridica post-unitaria. Ad essere indagato, per la prima volta con occhio non indulgente, fu il modello di proprietà privata sancito dal Codice e messo in discussione dalla presenza residuale di ordinamenti strutturati intorno a principii consuetudinari.

Una realtà, quella delle proprietà collettive, sopravvissuta nelle pieghe di un sistema giuridico opposto ai principi dell’unicità dell’ordinamento statuale e dell’uniformità della sua disciplina giuridica: una realtà pertanto scomoda, che doveva essere rimossa (anzi, liquidata) quanto prima, secondo l’opinione ottocentesca di economisti, politici e giuristi.

Costoro, tuttavia, non si erano pienamente resi conto del fatto che ad essere chiamata in causa era non un istituto giuridico bensì un’intera parte d’Italia, un’Italia rurale, contadina e montana, caratterizzata da un’aspra lotta di sopravvivenza quotidiana.

Il problema insomma era quello della permanenza nell’ordinamento statuale italiano post-unitario e poi repubblicano di schemi giuridici eccentrici rispetto al modello codicistico di proprietà privata; schemi che oltretutto riflettevano concezioni naturalistiche dello Stato, dove la proprietà collettiva sorgeva come spontanea soluzione al problema economico dello sfruttamento agricolo delle terre marginali.

Si può affermare, senza paura di esagerare, che quello degli usi civici è fra i temi più lontani nel tempo e più vicini nello spazio, contemporaneamente, entrando a gamba tesa nei dibattiti attuali, con evidenti ripercussioni pratiche sull’oggi. Basti citare l’istruzione dei giudizi commissariali dopo la legge n. 168/2017. Basterebbe appunto questo per spiegare l’importanza di un’analisi storico-giuridica del fenomeno che va sotto il titolo di domini collettivi e usi civici.